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Parrocchia San Pietro - Abbiategrasso

 

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Nacque ad Arona il 2 ottobre 1538 da Giberto e Margherita Medici. Già a vent'anni ebbe modo di far vedere la sua energia e il suo senso pratico. Nel luglio del 1558, alla morte del conte Giberto, padre di Carlo, il governo spagnolo, sempre in guerra con i francesi, mandò una compagnia di soldati a occupare la Rocca di Arona. Mentre Federico, il figlio maggiore di Giberto, si disinteressa di quel sopruso, Carlo invece fa intervenire amici vicini e lontani, fa scrivere al re Filippo II, dà indicazioni precise al fratello maggiore, gli procura dei soldi. Proprio in questo tempo, cioè nel dicembre 1559, Carlo termina i suoi studi all'università di Pavia con la laurea in diritto civile e canonico. La Rocca di Arona, restituita ai Borromei nel gennaio 1560, venne demolita nel 1800 per ordine di Napoleone. La camera, in cui era nato il santo, il cardinale Federico nel 1624 l'aveva trasferita dalla Rocca alla chiesa del Sacro Monte.

Il fratello della madre di Carlo, il milanese cardinale Giovan Angelo Medici, il 25 dicembre 1559 divenne papa. Appena eletto Pio IV invita a Roma i figli della sorella. Assai curiosa è la lettera in cui Carlo descrive il viaggio da Milano a Roma nel gennaio del 1560. Il giovane scherza su l'affollarsi delle onorevolissime dame alle finestre di Bologna per ammirare il nipote del papa, che sta andando verso onori e ricchezze insperate. A Roma i due fratelli, Federico e Carlo, vivono con uno sfarzo regale.

A fine gennaio Carlo è creato cardinale; in maggio è concluso il contratto di matrimonio di Federico con Virginia della Rovere, figlia del duca d'Urbino. Entrambi ricevono altissime cariche, con prebende numerose e ricchissime. Gerolamo Soranzo, ambasciatore della repubblica di Venezia a Roma, calcolava nel 1563 a circa cinquantamila scudi il reddito annuo del cardinale Borromeo. D'improvviso la sera del 19 novembre 1562, dopo pochissimi giorni di febbre, il ventisettenne conte Federico muore lasciando senza figli la moglie diciottenne. Per Carlo fu una cosa atroce, uno schianto: tanto sfarzo principesco, tanta felicità coniugale, tante speranze per le grandezze della famiglia, tutto in un momento crollava. Più volte negli anni seguenti il santo arcivescovo ebbe a confidare al suo procuratore Speciano che la morte improvvisa del fratello fu il mezzo di cui si servì il Signore per incitarlo a un radicale cambiamento di vita.

Fu una scelta tremenda, ma ben meditata. Era ricchissimo, unico maschio della famiglia, unico erede dei beni paterni; non era ancora prete; la diciottenne vedova di suo fratello non aveva figli. A Roma e altrove molti pensavano e dicevano che quella vedova l'avrebbe sposata lui. Insistenze a tale scopo gli venivano da parte di parenti e amici, e anche da parte di chi aveva la più grande autorità su di lui, cioè da parte di suo zio papa Pio IV, per il quale egli lavorava come il segretario di fiducia. Avevano visto tutti di quale rigore era capace Pio IV: nel marzo del 1561 aveva fatto giustiziare il cardinale Carlo Carafa, un fratello di lui e due complici. Pure il giovane nipote riuscì a persuadere lo zio.

Nel concistoro del 4 giugno 1563 papa Pio IV dichiarò: essendo morto il conte Federico, nel quale egli aveva riposto tutte le speranze per la continuazione della sua casa, e rimasto solo il cardinale fratello di lui, molti altri pontefici forse avrebbero invitato, non senza fondati motivi, il cardinale nipote a sposarsi; ma egli, il papa, aveva deciso che il nipote perseverasse in quella vocazione, nella quale egli aveva scelto di rimanere; e perciò lo eleggeva Cardinale Prete. Quindici giorni dopo, il 17 giugno, Carlo ricevette l'ordinazione sacerdotale; quindi il 7 dicembre venne consacrato vescovo. Per potere, almeno in parte, comprendere le vicende successive della vita di san Carlo, la sua severità con se stesso e con gli altri, le sue insonni fatiche, ci si deve sempre rifare alla crisi religiosa degli anni 1562-63. Volle dunque il giovane cardinale avviarsi con implacabile rigore alla conquista della perfezione e della santità. Cominciò a digiunare a pane ed acqua un giorno la settimana, a dedicare lunghe ore alla preghiera. Ridusse drasticamente le spese della sua casa: licenziò in una sola volt a ottanta dei suoi familiari (erano prima 150).

Nella biografia pubblicata dal Bascapè a Ingolstadt nel 1592 si legge: "Ricevuti gli ordini sacri il card. Borromeo personam ex eo tempore visus est longe dirersam induere", cioè a chi lo conosceva sembrò fosse divenuto un altro. In una relazione mandata a Venezia nel marzo del 1565 l'ambasciatore Giacomo Soranzo scrive di cose viste con i suoi occhi: "Il card. Borromeo di 27 anni è di non molto buona complessione, essendosi macerato per gli studi, i digiuni, le vigilie e altre astinenze... La vita sua è innocentissima e castissima. Dice messa ogni festa, digiuna spessissimo, e in tutte le cose vive con tanta religione... che si può con ragione dire, ch'egli solo faccia più profitto nella Corte di Roma, che tutti i decreti del Concilio insieme; essendo cosa molto rare volte veduta, che un nipote di Papa e a lui carissimo, in una età tanto giovane, in una Corte piena di tante comodità, abbia superato se stesso, la carne e il mondo". Le economie e le austerità gli davano i mezzi per aiutare gli ospedali e altre opere in favore di sprovveduti e di traviate.

Sembra che per qualche tempo il giovane cardinale abbia pensato di liberarsi dai troppi negozi che lo legavano presso il papa, in quella corte romana che non lo amava, e di ritirarsi a vita contemplativa magari nell'ordine dei Camaldolesi. Lo dissuase il vescovo di Braga, Bartolomeo de Martyribus, venuto a Roma da Trento nel settembre 1563. Questo sant'uomo aveva sostenuto nel concilio che i ve scovi hanno il grave dovere di governare personalmente le loro diocesi e di farvi stabile residenza. Al giovane Borromeo egli fece capire che la funzione pastorale non è che un continuo esercizio delle virtù più alte. Fu il de Martyribus a indurre il Borromeo a non rinunciare all'arcivescovato di Milano, che il papa gli aveva affidato "in commenda", e di cui Carlo aveva preso possesso tramite un procuratore fin dal febbraio del 1560.

Concluso il concilio di Trento nel dicembre 1563, il Borromeo si persuase che il compito più urgente e del Vaticano e anche suo personale era l'attuazione dei decreti tridentini. Scrive il Giussano nella biografia pubblicata a Roma nel 1610 che il cardinale Borromeo "intendeva molto bene che niun rimedio più potente si ritroua per persuadere vna cosa efficacemente, quanto che il vederla con gl'occhi proprij operare dalle persone istesse che la commandano". Suo stretto dovere era quindi trasferirsi da Roma alla sua sede di Milano. L'ostacolo maggiore alla partenza era il vecchio papa, che voleva tenersi vicino il giovane e fidato cardinale nipote. Provvedeva a Milano il Borromeo mandando vicari e vescovi e persone di fiducia. Nel 1564 riuscì ad avere da padre Laynez trenta gesuiti e a mandarli a Milano. Finalmente il 15 agosto 1565 il Borromeo, "con quella maggiore instanza che ha potuto, ha chiesto licenza a Nostro Signore (cioè al papa) di andare alla sua residenza a Milano, e l'ha, se ben con difficoltà, ottenuta per due mesi": così scrive l'Avvisatore. Partì da Roma la mattina presto del 1. settembre: sembra che avesse al suo seguito 150 persone, con settanta carriaggi. Grandi accoglienze per tutte le tappe del viaggio. A Viterbo, a Bolsena, a Siena, a Firenze dove viene alloggiato a Palazzo Vecchio. Si interessa delle necessità spirituali dei vari luoghi. In una lettera di questi giorni informa Pio IV della necessità di provvedere a far risiedere a Firenze un vescovo: che vi manca da quarant'anni.

Fastoso il suo ingresso a Bologna, come legato pontificio, vestito della cappa magna rossa: vi si ferma tre giorni. Altra tappa all'abbazia di Nonantola, della quale egli è commendatario. A Modena visita il card. Morone, convalescente. Poi Correggio, e Parma, e il 20 settembre è a Piacenza. Infine l'ultima tappa lo porta all'abbazia di Chiaravalle, dove si ferma in raccoglimento e preghiera. Il solenne ingresso in Milano ha luogo il pomeriggio di domenica 23 settembre.

La diocesi di Milano allora si estendeva anche al di là dei confini attuali, nelle pievi delle valli di Blenio, di Leventina, della Riviera e della Capriasca, e di vari luoghi della sponda occidentale del Verbano. Un complesso di oltre 750 parrocchie, un grande numero di conventi, circa 5000 sacerdoti e religiosi, e 3400 religiose. In genere al clero fin troppo numeroso mancava una adeguata preparazione, e d'altra parte i preti non erano incoraggiati all'impegno della loro missione dai troppi cattivi esempi della vita mondana dei prelati. In tanto deserto non mancavano alcune isole di fervore, specialmente attorno alle nuove congregazioni religiose. A Milano erano circa ottant'anni che gli arcivescovi non facevano residenza: quindi parroci ignoranti e non pochi anche scostumati; balli anche nelle chiese; frequenti pubblici adulteri; monasteri aperti troppo e a troppi. Si legge che per ripulire e rendere abitabile la casa dell'arcivescovo si dovettero portar via "cento carri di letame e rottami e ferrazze".

Carlo Borromeo volle iniziare la residenza nella sua diocesi con un esempio concreto di disinteresse. Francesco Cusani, uno storico laico, sobrio e preciso, nel primo volume della sua Storia di Milano, stampato nel 1861, scrive: "Carlo cominciò con un luminoso esempio di disinteresse, rinunciando a un annuo reddito di un milione e trecento cinquanta mila lire, proveniente da feudi, benefici e pensioni a lui concedute dal papa. Ne convertì una parte a benefizio del pubblico, impiegandola in erigere utili e grandiosi edifici". Il Cusani attinge a due testimoni oculari, cioè al Bascapè e al Giussano. Il Giussano dice: "Possedendo dodici abbazie e molte pensioni, (s. Carlo) tutte le rinuntiò, alcune in libera mano del Sommo Pontefice, altre le applicò a collegi e altri luoghi pii... si sgravò del principato d'Oria che gli fruttava diecimila ducati all'anno... mise in vendita le tre galere ereditate dal fratello e convertì il prezzo in uso pio...". Vendette pure i preziosi servizi da tavola portati da Roma: la vendita in parte si dovette fare a Venezia, perché a Milano non vi furono abbastanza compratori. A conclusione di tali rinunce il nuovo arcivescovo, dice il Giussano, "di scudi ottanta mila d'entrata, c'haveva ogni anno, si ridusse a venti mila". In due diversi luoghi della biografia il Bascapè parla di queste "immense ricchezze donate da Carlo per motivo di perfezione", della rinuncia a rendite abbondanti, dello spogliamento del palazzo e della splendida suppellettile, dell'abbandono delle cariche e delle copiose entrate che gliene venivano, dello "stupor grande" che provocò il ventisettenne arcivescovo con quel suo gesto.

La domenica successiva a quella del suo ingresso, cioè il 30 settembre 1565 il Borromeo fece il suo primo discorso ai milanesi in Duomo e manifestò loro, come riferisce il Giussano, "il desiderio ardente, che sempre hebbe d'assistere alla cura loro, anteponendo la residenza della sua Chiesa a tutte le grandezze di Roma". Difatti nei diciannove anni del suo episcopato, dal 1565 al 1584, egli dedicò alla sua gente tutto il suo tempo, tutte le sue energie fino a consumarsi la vita. In questo breve riassunto non si può che accennare alle diverse forme della sua prodigiosa attività, alle numerose costruzioni di chiese e collegi e scuole, alle visite pastorali in tutti i paesi e villaggi della diocesi, alla imponente legislazione definita nei sei concili provinciali e negli undici sinodi diocesani. Tutte queste leggi vennero stampate a Milano nel 1582 nell'opera Acta Ecelesiae Mediolanensis: da Lione ne vennero ordinate cento copie; e l'arcivescovo di Toledo se ne fece mandare dieci copie. Il santo vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, affermava che lo studio di quelle pagine era indispensabile per ogni vescovo. Possiamo almeno fermarci su due momenti salienti dell'attività dell'arcivescovo: l'anno della carestia e l'anno della peste.

Lo scarsissimo raccolto del 1569 causò estrema penuria di pane e di viveri. L'anno seguente un grande numero di indigenti si riversò dalla campagna in città. San Carlo impose al suo elemosiniere di allargare la mano, oltre le elargizioni ordinarie, per poter soccorrere la povera gente che soffriva la fame. A sue spese procurò ingenti acquisti di farina e di riso e di legumi. Ordinò che si tenessero caldaie piene di cibi cotti sotto i portici del palazzo arcivescovile, al quale non era impedito a nessuno l'ingresso. Più di tremila persone al giorno vennero nutrite dall'arcivescovo per tutto il tempo della carestia, che durò parecchi mesi. "Onde gli convenne - conclude il Giussano - fare molti debiti e anche ricercare egli stesso limosine da i ricchi e dalla nobiltà".

Momento alto nella vita del Borromeo furono gli anni 1576-77, gli anni di quella peste, che desolò, come scrive il Manzoni nel capitolo XXXI de I Promessi Sposi, "buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo; perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta". Cominciò a manifestarsi il contagio in Milano nell'agosto del 1576. Vivaci impressioni, se pur frammentarie, delle vicende di quei mesi, si possono leggere nelle lettere di un nobile genovese, Papirio Picedi, che viveva in quel tempo a Milano. A fine settembre si erano già contati in città seimila morti di peste. Personalità autorevoli si erano rifugiate in località lontane e sicure, tra esse il governatore spagnolo, con l'idea, s'intende, di poter meglio procurare possibili soccorsi. L'arcivescovo invece decise di rimanere. Sapeva bene il rischio e quindi nel settembre del 1576 con tutte le forme legali fece il testamento, nominando erede universale dei suoi beni personali l'Ospedale Maggiore di Milano. Il lazzaretto, per quanto grande, risultò presto insufficiente ad ospitare gli appestati, e allora si decise di costruire duecento capanne al di fuori di ciascuna porta della città. In ottobre venne ordinata una quarantena: case serrate, tutte le botteghe e gli opifici chiusi. Circa ottanta mila persone si trovarono così senza lavoro. Chiuse anche le chiese: l'arcivescovo fece fare altari all'aperto in varie piazze e crocicchi. Domandò e ottenne generosa collaborazione da schiere di uomini e di donne che si prestarono a visitare gli appestati e a soccorrerli. Nel processo informativo tenuto a Milano nel 1603 Ambros Fornerod (o Fornerio), un friburghese che fu più di vent'anni con san Carlo come suo domestico e anche interprete , dichiarò: "Mi smenticavo di dire che il Beato Carlo nel principio della peste vedendo che i poveri infetti pativano notabilmente et non erano serviti né anco da sacerdoti come bisognava mi mandò in Levantina, paese de Svizzeri, et condussi in qua 40 huomini, et circa 14 donne, et alcuni sacerdoti a spese sue proprie per servire alli detti infermi e purgar i panni per conservargli perché prima si abbracciavano".

Lui stesso l'arcivescovo usciva ogni giorno a visitare i malati e nelle capanne e nel lazzaretto per provvedere ai possibili aiuti. Riferisce il Bascapè che in quel continuo rischio di morte c'era pure chi rubava a man salva e chi si abbandonava a sfrenate lussurie. Per assicurare qualche ordine l'arcivescovo persuase le autorità civili ad affidare la direzione del lazzaretto ai frati cappuccini. Nei mesi dell'inverno 1576-77 fu necessario provvedere anche ai vestiti per migliaia di malati. Per fare vesti e mantelli san Carlo adoperò le tappezzerie di casa sua: distribuì 800 braccia di panno rosso e 600 braccia di panno paonazzo. A supplicare Iddio che facesse cessare il flagello fece fare anche non poche processioni. Per le quali certamente il contagio avrà avuto incremento, e il santo ebbe rimproveri da una gran quantità di storici d'allora e di poi. Nel settembre del 1577 la peste poteva dirsi finita in città, mentre lunghi strascichi si ebbero nel contado. Al curato di Luino mandò somme cospicue perché provvedesse a soccorrere gli appestati di Maccagno. Ancora nel 1580 san Carlo andò a visitare gli appestati di Brissago: il Possevino, che l'accompagnava in quel viaggio, nella breve biografia stampata a Roma nel 1591, scrive che l'arcivescovo entrò nelle case di ciascuno degli appestati "dando a ciascuno secondo il bisogno loro a chi dui, a chi tre, a chi più a chi meno scudi d'oro".

Passata la peste, Milano risorse in fretta con i suoi traffici. Già nel 1581, passando di qui, il signore di Montaigne scrive nel suo giornale: "Milano è la città più popolata d'Italia... le mancano i palazzi di Roma, Napoli, Genova, Firenze, ma di grandezza le vince tutte, e di calca di gente arriva a Venezia". Però i sopravissuti e della città e della campagna non dimenticarono l'altruismo eroico dell'arcivescovo in quei tragici anni della grande morìa. Per la sua azione religiosa l'arcivescovo aveva da affrontare l'ignoranza e il malcostume del clero, poi l'ingerenza soffocante delle autorità civili nelle cose di chiesa, infine l'eresia che minacciava dai paesi del nord.

La pace di Augusta del 1555 tra protestanti e cattolici aveva sanzionato il principio: cuius regio, eius et religio: la gente deve seguire la religione del suo principe. La libertà religiosa era riconosciuta soltanto ai principi, non ai cittadini. Nel secolo XVI base del diritto pubblico era considerato il diritto del capo dello Stato di poter imporre la propria religione ai suoi sudditi.

Negli anni di san Pio V (1566-1572), che sono pure anni di san Carlo, l'intolleranza e in campo protestante e in campo cattolico raggiunge vertici da crociata. Nei due campi non si cerca che la distruzione dell'altra parte. In Francia dopo le devastazioni degli ugonotti che a Montpellier uccidono 150 preti e in varie parti distruggono diecimila chiese, la vendetta dei cattolici esplode nell'agosto 1572 nella notte di san Bartolomeo, che vede uccisi 4000 ugonotti nella sola Parigi. In Inghilterra negli anni di Maria la Cattolica (1553-1558) ci furono 300 condanne a morte per causa di religione. Sempre per tale causa durante il regno di Elisabetta (1558-1603) vennero uccisi 124 preti e 61 laici cattolici. San Pietro Canisio predicando a Innsbruck nell'agosto 1571 sostiene la legittimità della pena di morte per quelli che vogliono abolire la Messa e disprezzano e rinnegano la Chiesa. Due mesi prima a Coira i settanta ministri del sinodo grigionese danno il loro voto alla tesi di Tomaso Egli, discepolo di Bullinger, che i "papisti" devono essere espulsi, che si devono estirpare, anche con la pena di morte se necessario.

Nella diocesi milanese il Borromeo trovava dovunque una montagna di abusi e di disordini. Cominciò a far ripristinare nei monasteri la clausura e le grate; volle che si finisse di far baldorie e traffici nelle chiese; ritenne suo obbligo richiamare preti e parroci all'osservanza del celibato. Ad evitare tresche almeno nelle chiese, san Carlo comandò di impiantare steccati fissi nelle navate per tener separate le donne dagli uomini. Egli poi riteneva come un presupposto di una efficiente attività pastorale l'esercizio illimitato della giurisdizione vescovile e sul clero e sui laici. Era persuaso di avere il diritto di far chiudere nelle sue prigioni non soltanto preti e suore, ma pure i laici condannati dai tribunali del vescovo. Proteste clamorose quindi da parte delle autorità civili. Celebre l'episodio del bargello nel 1567. Un tale maestro Benedetto denuncia all'arcivescovo che sua moglie se l'è presa con sè il signor Castiglione, e gli chiede che intervenga a punire il colpevole. Il bargello arcivescovile ordina quindi di arrestare il concubinario Castiglione. Si muove l'autorità civile, e il capitano di giustizia interviene a punire il bargello dell'arcivescovo. L'arcivescovo reagisce con scomuniche. Ricorsi a Roma da entrambe le parti, mentre la vicenda si trascina per mesi e mesi.

 Naturalmente i severi provvedimenti del Borromeo sollevarono di continuo forti opposizioni. Citiamo qualche caso. L'arcivescovo pensava di avere diritto e dovere di visitare anche la chiesa di santa Maria della Scala, nonostante i privilegi reali. I canonici scalensi si opposero con violenza all'ingresso del cardinale il 30 agosto 1569. Quindi scomuniche reciproche e una lunga vertenza. Gli Umiliati con i loro opifici e commerci erano divenuti una potenza finanziaria: nella sola città di Milano possedevano una quindicina di case. I religiosi, assai pochi, avevano a disposizione rendite annuali per 50 mila scudi, cioè parecchi milioni di franchi; e i loro modi di vita non erano certamente conformi al voto di povertà. Incaricato da Roma di provvedere a una riforma dell'ordine degli Umiliati, san Carlo riunì i capi; propose e decretò nuovi regolamenti poichè non ubbidivano, destituì i dirigenti. Venne allora ordita una congiura. La sera del 26 ottobre 1569 nella cappella del palazzo arcivescovile, mentre l'arcivescovo era in preghiera, un tale gli sparò un'archibugiata. Il colpo, se pure a distanza ravvicinata, lasciò illeso il cardinale. Ma quell'archibugiata ammazzò l'ordine degli Umiliati. L'enorme impressione sollevata e a Madrid e a Roma da quell'attentato determinò papa Pio V alla decisione di sopprimere l'ordine, non soltanto di riformarlo. A Milano un rapido processo civile condannò i quattro maggiori responsabili e colpevoli della congiura: essi vennero giustiziati a Milano il 28 luglio 1570. La soppressione del ricchissimo ordine rendeva disponibili i suoi beni. Da parte di molti ci fu allora un vero assalto ai possedimenti degli Umiliati.

 San Carlo mandò lo Speciano a Roma a brigare perchè qualcosa finisse anche a bene della chiesa di Milano. Potè così l'arcivescovo dare Brera ai Gesuiti, e avere poi i mezzi per ricostruire il palazzo arcivescovile con nuove stalle e più ampie carceri; edificare il seminario di corso Venezia, il Collegio Elvetico, il collegio dei nobili, la chiesa di san Fedele, e ancora altre costruzioni.

 Il Borromeo, per la sua educazione legalistica aveva una concezione quasi medievale dei rapporti tra stato e chiesa. Ebbe quindi urti continui con i governatori spagnoli. Nel 1573 scomunicò il Requesens, che aveva pubblicamente trasgredito le disposizioni arcivescovili sui balli nei giorni festivi. La vertenza, finita a Roma, non venne risolta, anche perchè il Requesens ebbe un incarico più alto e si trasferì nei Paesi Bassi. Più clamoroso il conflitto con il governatore Ayamonte, il quale nel febbraio 1579 mandò armati in piazza a disturbare con tornei e squilli di tromba le celebrazioni dell'arcivescovo in Duomo. Venivano diffusi e appesi ai muri opuscoli e stampati con violente critiche all'arcivescovo: che era esagerato nelle sue pretese, che molti lo odiavano, che fomentava ribellioni e disordini. Anche negli ambienti romani divenivano sempre più forti le riserve per i suoi metodi. Il governatore Ayamonte sollecitava apertamente che il Borromeo venisse promosso, cioè allontanato da Milano. Voci diffuse insinuavano che anche le istanze supreme di Madrid suggerivano a Roma di provvedere in quel senso e che papa Gregorio XIII non era affatto convinto che il cardinale di Milano avesse del tutto ragione nelle sue esigenze. Anche il consiglio dei decurioni di Milano deliberò di mandare a Roma alcuni patrizi milanesi con credenziali per il papa e per alcuni cardinali, a chiedere che non si permettesse "che il popolo di Milano senza suo demerito sia trattato con leggi più aspre degli altri cristiani".

 La grave crisi della sua posizione era avvertita anche dall'arcivescovo, il quale nell'estate del 1579 decise di recarsi lui stesso a Roma a difendersi. Rimase a Roma più di quattro mesi, dall'agosto 1579 al gennaio 1580. Nel viaggio di andata si fermò quindici giorni nell'eremo di Camaldoli "in continui digiuni, orationi, e contemplationi, trattando con Dio la causa della Chiesa sua". Altre notti di preghiera passò alla Verna. Fece infine un pellegrinaggio alla santa casa di Loreto. Bastano questi particolari a testimoniare le lunghe riflessioni che dovette fare allora san Carlo sui metodi suoi e sulle ragioni dei suoi oppositori, e a Milano e a Roma.

 Intanto la delegazione delle autorità milanesi esponeva in varie sedi romane le lamentele e invocava rimedi alle "perturbazioni" causate dai provvedimenti del santo arcivescovo. In queste requisitorie presentate in quell'occasione dai rappresentanti dei decurioni milanesi i rilievi sull'eccessivo rigore dei tribunali arcivescovili di Milano la dicono lunga: "Si procede con tormenti (cioè torture) exquisiti, dalli quali molti ne sono stati storpiati e talvolta ancora morti". Si capisce che, come il cardinale Morone nel Cinquecento, così anche oggi storici cattolici, come Hubert Jedin, non risparmiano a san Carlo l'accusa di eccessivo rigorismo. Nei quattro mesi della sua permanenza a Roma il Borromeo riuscì a cambiare la situazione in suo favore. Papa Gregorio XIII gli suggerì certamente temperamenti e concessioni.

 L'ultima fatica di san Carlo fu il viaggio ad Ascona il 30 ottobre 1584. Il giorno precedente era sceso dal sacro monte di Varallo. La sera stessa arrivato ad Arona si imbarcò. Arrivò a Cannobio all'alba di martedì 30 e si fermò a celebrare la Messa. Ripresa la navigazio ne giunse ad Ascona verso le nove. Nella chies a parrocchiale davanti alla popolazione e al consiglio comunale presiedette alla cerimonia dell'atto notarile di fondazione del collegio Papio. Durante la lettura gli viene un nuovo attacco di febbre. Nel pomeriggio risale su la barca. Si ferma a dormire a Cannobio nella casa degli Omacini che sta presso la riva del lago. La mattina del 31, mercoledì, riparte per Arona. Celebra l'ultima sua Messa la mattina del 1. novembre giovedì ad Arona. Ripresa la febbre, la mattina del 2 novembre, venerdì, viene portato sulla barca che lo conduce lungo il Ticino e il Naviglio a Milano, dove arriva a sera. Alle ore 21.40 del sabato 3 novembre muore. Aveva 46 anni e 21 giorni. La notte tra martedì e mercoledì i due cappuccini che l'assistevano nel confortarlo gli dissero anche che doveva attenuare le sue austerità. Rispose loro: "La candela per far luce deve consumarsi". Carlo Borromeo per la sua gente aveva consumata la vita.

 

don Angelo Paredi